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lunedì 18 novembre 2024
di Avv. Gianni Dell'Aiuto
Se venisse confermato quanto traspare dalla cronaca, l’episodio della maestra di Castellammare di Stabia, aggredita dal branco perché accusata falsamente di abusi su minori, sarebbe un messaggio che deve far riflettere non solo sulla deriva di una società che si comporta con una giustizia da far west (e già sarebbe preoccupante), ma anche sul ruolo cruciale del controllo delle parole nell’epoca della diffusione virale dei messaggi.
Sembra la favoletta della gallina che perse una piuma: niente di straordinario, ma nel pollaio la notizia iniziò a girare e ogni gallina ci mise del suo. Qualcuna disse che era segno di malattia, altre che la poveretta sarebbe rimasta nuda. Alla fine il pollaio era convinto un’epidemia fosse in arrivo. Stavolta, però, nella vita reale, la voce che una maestra avrebbe abusato di un alunno si è diffusa a una velocità impressionante. Prima un messaggino, poi due, poi cento. Pare che nessuno si sia chuiesto se l'accusa fosse vera. Nessuno, pare, si è fermato a verificare. Peggio, sembrerebbe che nessuno si sia rivolto all’autorità giudiziaria. Il risultato? Una folla di genitori e nonni che ha preso d’assalto la scuola e si è fatta giudice e esecutore della pena, pestando la maestra prima di ascoltarla.
Nel 1938, Orson Welles inscenò per radio un’invasione aliena, leggendo La guerra dei mondi con sirene e bollettini falsi. Bastò perché mezza America si convincesse che i marziani fossero davvero sbarcati. All’epoca, però, c’erano due attenuanti: la radio era il mezzo di informazione per eccellenza e verificare le notizie era un lusso. Oggi, invece, siamo tutti “ben informati”. Abbiamo smartphone, internet, social media. Viviamo in un mare di informazioni ma non ci fermiamo a cercare quella giusta e peschiamo pettegolezzi e li inoltriamo con la stessa leggerezza con cui si manda un’emoji. E poco importa se la notizia è vera o falsa: ciò che conta è il brivido di condividerla, di essere “dentro” l’evento.
Ogni messaggio che passa contiene più di semplici parole: porta con sé informazioni e dati che riguardano persone reali. Ogni volta che condividiamo senza riflettere, stiamo esponendo qualcuno — un volto, un nome, una reputazione — al giudizio e alla curiosità di un pubblico infinito. La maggior parte di noi non è nemmeno in grado di distinguere il vero dal falso o di discernere se ciò che sta inoltrando sia dannoso o innocuo. Pensiamo ai danni permanenti: la foto di una ragazzina, scattata per un fidanzatino, che finisce virale, diventa inaccessibile, e magari, dopo anni, ricompare in un sito pornografico. Oppure, un semplice errore grammaticale in un messaggio condiviso per gioco può essere usato per deridere chi l’ha scritto, persino anni dopo. Ogni parola e ogni immagine lanciata nel mare della rete rimane, pronta a riemergere quando meno ce lo aspettiamo.
Le parole non cadono senza far rumore. Sono pietre che rotolano e travolgono tutto ciò che incontrano. E quando vengono lanciate da uno smartphone, possono fare più danni di un’intera invasione marziana. Perché dietro a quelle parole ci sono persone, vite, reputazioni. La maestra pestata a scuola è l’ultimo caso, ma ce ne sono stati altri e ce ne saranno ancora. E sembra proprio che questi episodi non vengano ascoltati, e che non se ne traggano le opportune conclusioni. Finché non impariamo che prima di inoltrare un messaggio, prima di condividere un post, dobbiamo fare una cosa molto semplice: fermarci. Leggere. Riflettere. E soprattutto, chiederci: è vero?
Chi gestisce le piattaforme ha un dovere non solo morale di intervenire. La tecnologia che permette ai messaggi di viaggiare alla velocità della luce può anche aiutare a fermare le bufale e a segnalare i contenuti dannosi. Gli algoritmi, progettati per mantenere le persone incollate agli schermi, potrebbero invece essere usati per ridurre la disinformazione e promuovere la verifica dei fatti.
Anche le aziende, poi, non possono continuare a ignorare il ruolo che giocano. Una comunicazione responsabile, sia verso i propri dipendenti sia verso il pubblico, deve includere la lotta alla viralità inconsapevole.
E infine, gli operatori della privacy, già prima delle istituzioni devono fare la loro parte. Proteggere i dati personali significa anche proteggere le persone. La sensibilizzazione sui diritti digitali e il supporto a chi è vittima di diffamazione online devono diventare parte integrante delle loro politiche. Non possiamo fermare ogni messaggio e non possiamo spegnere internet. Ma possiamo fermarci a riflettere prima di cliccare "inoltra". Possiamo esigere maggiore responsabilità da chi crea, gestisce e sfrutta queste piattaforme. E possiamo, tutti insieme, fare la differenza, perché la prossima piuma non diventi un’altra tragedia.
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