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Dark Pattern: tra design ingannevole e trattamento dati illecito


martedì 22 aprile 2025
Di Avv. Gianni Dell'Aiuto



C’è un punto in cui il marketing digitale, l’interfaccia utente e la normativa sulla protezione dei dati si incrociano. È lì che nasce il problema dei dark pattern. Non parliamo di opinioni o di gusti nel design, ma di modelli strutturali di inganno, meccanismi studiati per forzare o manipolare il comportamento dell’utente online, inducendolo a compiere scelte che non avrebbe fatto in piena libertà. Il legislatore, europeo e nazionale, ha iniziato da tempo a inquadrare questi comportamenti per quello che sono: violazioni del diritto alla protezione dei dati personali e, nei casi più gravi, pratiche commerciali scorrette.

Lo ha detto il Garante e lo sanno bene le aziende sanzionate per questa pratica. I Dark Pattern sono schemi di design ingannevoli utilizzati nelle interfacce digitali per spingere inconsapevolmente l’utente a compiere azioni che non farebbe liberamente, come accettare trattamenti di dati o iscriversi a servizi. Sfruttano leve psicologiche, scelte grafiche o testuali ambigue per forzare decisioni favorevoli all’azienda.

L'architettura invisibile della manipolazione

I dark pattern operano silenziosamente nell’architettura delle scelte digitali. Fanno leva su asimmetrie informative, sfruttano debolezze cognitive, costruiscono percorsi predefiniti a vantaggio del titolare del trattamento, spesso a danno della libertà decisionale dell’interessato. Ne sono esempi i moduli di consenso in cui l’opzione per accettare tutti i trattamenti è immediatamente visibile, colorata, centrale, mentre quella per personalizzare le scelte è nascosta, poco evidente, faticosa da raggiungere. Oppure quei sistemi in cui l’utente si ritrova iscritto a newsletter o profilazioni marketing semplicemente per aver richiesto informazioni, senza un consenso separato, esplicito e informato.

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Sotto il profilo giuridico, queste condotte violano l’articolo 4, n. 11 del GDPR, che definisce il consenso come manifestazione libera, specifica, informata e inequivocabile della volontà dell’interessato. Il considerando 32 del Regolamento, inoltre, precisa che il silenzio, l’inattività o le caselle pre-selezionate non costituiscono consenso valido. Ogni finalità di trattamento, inoltre, deve essere chiaramente indicata e accompagnata da una base giuridica autonoma. L’utilizzo di una singola azione per legittimare una pluralità di trattamenti non è conforme al principio di trasparenza (art. 5, par. 1, lett. a GDPR) e lede i diritti dell’interessato, il quale deve poter esercitare la propria autodeterminazione informativa in modo consapevole.

Quando il marketing diventa pratica commerciale scorretta

In aggiunta, quando le tecniche utilizzate non riguardano solo la gestione dei dati personali, ma influiscono sulla libertà contrattuale del consumatore, si entra nel terreno delle pratiche commerciali scorrette vietate dal Codice del Consumo (artt. 20 e ss. D.lgs. 206/2005),

La giurisprudenza e le linee guida europee convergono ormai su un punto: non è sufficiente che l’utente “clicchi”, è necessario che comprenda, scelga e decida in modo genuino. È il concetto di validazione della volontà, che travalica la dimensione tecnologica e riporta la questione al piano della legittimità giuridica dell’intero processo.

Le aziende, però, faticano a cogliere l’aspetto sistemico della questione. Spesso, i reparti marketing sono orientati all’ottenimento del massimo numero di consensi possibile, nella convinzione che quantità significhi valore. I tecnici, dal canto loro, implementano ciò che viene loro richiesto, senza avere sempre la piena consapevolezza degli impatti giuridici delle soluzioni adottate. Il risultato è un sito web costruito come una macchina di raccolta dati, dove il principio di minimizzazione (art. 5, par. 1, lett. c GDPR) viene sacrificato sull’altare della lead generation.

Eppure, anche solo un modulo di richiesta informazioni può costituire un trattamento illecito se manca la corretta base giuridica o se il form include opzioni precompilate per l’invio di comunicazioni promozionali. In quel caso, la società non sta solo rischiando una sanzione: sta invalidando alla radice la raccolta dati, con conseguente inutilizzabilità delle informazioni ai fini del marketing e potenziale obbligo di cancellazione retroattiva.

Il Garante, da parte sua, ha già emesso sanzioni e ammonimenti a soggetti pubblici e privati per l’uso di interfacce manipolative, ribadendo che non vi è distinzione tra forma e sostanza nella tutela del dato personale. L’inganno grafico o testuale è comunque un inganno. E il fatto che sia tecnologico non lo rende meno grave. Anzi, lo rende più insidioso.

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Conclusioni

In questo contesto, diventa essenziale il ruolo dell’avvocato specializzato in protezione dei dati. Non come revisore finale o “bollino verde” a progetto concluso, ma come parte integrante del team di sviluppo. Serve una figura capace di interfacciarsi con sviluppatori e designer, con competenze trasversali, per assicurare che ogni scelta tecnica sia anche una scelta conforme. E serve che chi fa marketing capisca che non tutti i dati che si possono ottenere sono dati che si hanno diritto a trattare.

La legalità di un trattamento non si improvvisa. Si progetta. E si difende. Solo così si potrà costruire un ecosistema digitale sostenibile, rispettoso dei diritti e al riparo da sanzioni. La scorciatoia, stavolta, è proprio quella di seguire la strada più lunga: quella della conformità.




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