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Rapinano le banche dati perchè contengono valori


lunedì 26 luglio 2021
Avv. Gianni Dell’Aiuto





È una leggenda metropolitana smentita dalla stessa persona a cui è stata attribuita. Si legge infatti in giro che quando al rapinatore di banche americano Willie Sutton venne chiesto “Perché rapina proprio le banche?” La risposta fu “Perché è lì che stanno i soldi.” Anni dopo lo stesso Sutton, nella sua biografia, precisò di non avere mai detto quella frase salvo precisare che quella sarebbe stata la risposta se mai glielo avessero chiesto. Logico: le rapine si fanno dove si trovano i soldi.

Chiediamoci allora come mai oggi il maggior numero di furti e rapine avviene dove vengono conservati i dati personali.

Dai dati che si trovano online l’Italia sembra sia al sesto posto nella classifica delle nazioni in cui avviene il maggior numero di furti di dati personali e nessuno è immune da attacchi hacker sotto ogni possibile forma: dal phishing ai ransomware fino dalle truffe informatiche ogni metodo è buono per ottenere indirizzi mail, informazioni personali, password, iban e codici dei sistemi di pagamento. Sono sotto attacco privati e imprese: ai primi si sottraggono i dati per accedere a conti correnti e alle seconde gli interi database aziendali per chiedere riscatti che, anche se pagati, non garantiscono la certezza che i dati vengano restituiti o comunque siano messi a disposizione di chiunque nel darkweb.

Aumenta la navigazione in rete, aumentano le attività che possono essere fatte online e, di conseguenza, aumenta il numero di dati che possono essere sottratti e le possibilità di farlo. La pandemia ha offerto ai pirati del web anche la possibilità di sfruttare lo smartworking e la didattica a distanza, due situazioni in cui il navigatore si presta oltretutto maggiormente esposto in caso di attacco; non possiamo infatti essere certi che il computer utilizzato a casa e la rete internet siano protetti come quelle aziendali o, perlomeno, come queste dovrebbero esserlo.

La distrazione dell’utente è sempre uno dei fattori che maggiormente contribuiscono al furto di dati: un click avventato o su una finestra che si apre improvvisamente, senza dare modo di controllare a che cosa si accede; un consenso al trattamento dati senza rendersi conto che in questa maniera si corre il rischio di vedere legalmente venduti i nostri dati ad agenzie di marketing o altro. Sono solo alcune delle modalità con cui il navigatore permette a sconosciuti di accedere al patrimonio personale rappresentato da quei dati che costituiscono l’identità digitale di una persona.

Sembra che, ancora, non sia presente nei singoli la consapevolezza dell’importanza del dato mentre le aziende, dall’altro lato, non hanno ancora realizzato quanto sia importante, non solo per il rischio di sanzioni economiche, proteggere la cassaforte che contiene tutti i dati di clienti, fornitori, dipendenti e contatti magari ottenuti tramite i social. Gli utenti della rete, da parte loro, si mostrano fin troppo attenti quando la loro privacy viene violata da una telefonata da un call center o da una mail pubblicitaria non gradita, ma dimenticano che ciò, spesso, accade a causa della loro distrazione o leggerezza nella navigazione.

I dati personali, non ci stancheremo di ripeterlo, sono un bene economico di grande valore, è la benzina di internet: senza i dati i sistemi operativi resterebbero fermi e l’economia del web ha bisogno non solo di dati per muoversi, ma anche di poterli comparare, profilare, interconnettere e poter portare all’utenza ogni possibile offerta personalizzata. Da qui il bisogno di dati che, in molti cercano di ottenere e processare legalmente, ma i malintenzionati non mancano e hanno a disposizione un grande mare in cui poter pescare più o meno lecitamente il bene più prezioso che esiste sul mercato oggi: i nostri dati personali.




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