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Pubblicità digitale: la Commissione europea pubblica uno studio che dipinge un quadro allarmante


giovedì 1 giugno 2023



La Commissione Europea ha pubblicato uno studio sull'impatto che la pubblicità digitale ha sulla privacy degli utenti. “Study on the impact of recent developments in digital advertising on privacy, publishers and advertisers” è una analisi ampia e approfondita che rende un quadro allarmante sia per le modalità che le conseguenze della pubblicità digitale. A partire dal massiccio trattamento dati che ruota attorno alla pubblicità digitale e dall'evidente conformazione oligopolistica del settore.

La situazione odierna insomma non ha un forte impatto solo sulla privacy degli utenti, quindi, ma anche verso gli editori e gli inserzionisti europei, stritolati dal mercato delle grandi piattaforme online. 


Pubblicità digitale: l'impatto sulle persone fisiche

Lo studio inizia con una analisi dell'evoluzione tecnologica degli ultimi anni e dell'anadamento del mercato del digital advertising. Un contesto necessario per poter analizzare in concreto gli effetti sulla privacy delle persone.

Da questo punto di vista, ribadisce il testo, il GDPR è una delle prime reazioni all'evoluzione della pubblicità digitale. A questo il legislatore, sia europeo che nazionale, ha affiancato un sistema di tutela e monitoraggio della persona fisica.

Il tracking degli utenti e i rischi indiretti: la legge non sta al passo con la realtà
Andando più in dettaglio, lo studio analizza una serie di casi studio per contestualizzare quelli che sono definiti "rischi indiretti" della pubblicità digitale. Ad esempio, lo studio cita:

  • un report del 2018 sul tracking nel digital advertising che indicava come le 52 aziende di pubblicità oggetto di studio raccogliessero oltre il 91% delle interazioni degli utenti durante la navigazione;
  • l'esercito degli Stati Uniti ha dichiarato più volte e pubblicamente di comprare i dati di Babel Street e X-Mode, due app che tracciano apertamente i propri utenti raccogliendo anche dati sensibili come l'appartenenza confessionale;
  • uno studio del 2022 dell'Irish Council per le libertà civili che quantifica in 376 volte al giorno, in media, la diffusione di dati personali dei singoli individui.

Risultato? Più dati vengono raccolti più aumenta il rischio che vengano esposti, ovvero che siano oggetto di data breach o data leak come primi e immediati rischi indiretti. La conclusione sul punto della Commissione europea è scontata quanto triste: il percorso legislativo non sta al passo con la realtà, non riuscendo a creare un quadro normativo al passo con le modalità sempre più invasive utilizzate per la pubblicità digitale.

A ribadire il concetto, lo studio spiega che il quadro tratteggiato potrebbe addirittura essere, nella realtà, peggiore di quanto descritto. Va tenuta in considerazione infatti, anche l'abitudine di alcune agenzie di sicurezza e governative, di immagazzinare grandissime quantità di dati sugli utenti. Su questa tipologia di trattamento dati non si sa nulla, non vi sono dati statistici e vi sono anche seri dubbi di legittimità.

Lo studio cita, non a caso, il caso Snowden che ha consentito di far sapere al mondo come le agenzie di sicurezza USA sfruttassero i cookies di Google per monitorare gli utenti. Un trattamento massivo e invasivo di dati (compiuto anche in altri Stati) che era segreto fino a quanto Snowden non l'ha resio pubblico. L'accesso ai dati personali da parte delle agenzie di sicurezza è uno tra i principali motivi che ha portato alla dichiarazione di illegittimità del Privacy Shield.

Per approfondire > Privacy Shield: l’UE annulla l’accordo per il trasferimento dei dati personali negli USA

 

Informative opache e scarsa trasparenza

Le criticità non sono finite. La Commissione EU bersaglia di nuovo le piattaforme online, prendendo atto del fatto che molto spesso l'esercizio dei diritti dell'interessato è impedito / reso complesso da meccanismi macchinosi e poco trasparenti. Così i dati mostrano come gli utenti siano vittime di fortissima disinformazione sui diritti personali esigibili in fatto di privacy e protezione dei dati, così come una confusione generale su quali siano le reali previsioni normative. Di nuovo viene sottolineato lo scollamento tra la realtà empirica e quella giuridica.

Per approfondire > Monetizzazione dati: il Garante lancia l'allarme sui dati personali

 

Le piattaforme e la pubblicità digitale sono escludenti?

Lo scollamento tra realtà empirica e giuridica è ribadito anche da moltri altri fattori. Uno tra questi è l'evidenza di come intere fette di popolazioone siano state tagliate fuori da alcuni settori della pubblicità digitale. Ad esempio, la Commissione europea spiega come l'adervtising digitale di Meta ha previsto l'esclusione dalle pubblicità afferenti al mercato immobiliare, di interi gruppi sociali appartenenti a etnie diverse. In maniera simile lo studio cita Google: l'uso del filtraggio per individuare target ha portato a ricerche ad hoc che hanno escluso le donne e le categorie non binarie dall'advertising.

Sia chiaro: né Meta né Google hanno mai deciso esplicitamente di fare pubblicità digitale escludente: è semplicemente successo nei fatti in conseguenza alle modalità e ai meccanismi di profilazione e filtraggio degli utenti. Una conseguenza indiretta.

 

Editori e inserzionisti europei in crisi

Infine la Commissione dedica un lungo spazio ai problemi che attanagliano editori e inserzionisti europei. In generale tutti gli operatori di questo mercato che non sono collegati direttamente alle dinamiche delle grandi piattaforme.

Il dato di fatto che gran parte degli editori e inserzionisti europei ha comunicato alla Commissione è che la posizione dominante di alcuni attori noti impedisce alle società di comunicare direttamente e con efficacia alla propria clientela. Non a caso, il report ha confermato come negli ultimi 10-15 anni, i canali di "search advertising" e "social media advertising", monopolizzati dalle grandi piattaforme, siano cresciuti mentre i ricavi dei maggiori editori europei siano rimasti pressoché stagnanti.

“Gli editori europei faticano a competere per le entrate pubblicitarie digitali perché le grandi piattaforme hanno più accesso ai dati di loro” si legge. A cosa si devono queste difficoltà? Qui il report è impietoso e diretto: alla mancanza di trasparenza e ai sempre più ampi disequilibri di potere contrattuale tra le varie parti. Nei fatti siamo lanciati nella direzione di un controllo totale, da parte delle grandi piattaforme, della governance della rete al quale la normativa, pur importante, al momento non riesce a contrapporre una tendenza inversa.

“Chi controlla le domande dà forma alle risposte e chi controlla le risposte dà forma alla realtà” conclude lapidario il testo.

Uno sguardo oltre > Cookie di terze parti: il mondo dopo la loro fine




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