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lunedì 9 dicembre 2024
Di Avv. Gianni Dell'Aiuto
L’Università di Oxford lo ha ufficialmente decretato: la parola dell’anno per il 2024 è Brain Rot! Esatto: proprio così: Cervello Marcio; e non possiamo certo andarne fieri se pensiamo che la scelta deriva principalmente dalla navigazione su TikTok da parte dei più giovani che, a quanto pare, lo usano non nel contesto negativo che dovrebbe avere.
Curiosamente, infatti, proprio le generazioni che sembrano maggiormente "affette" da questa condizione sono anche le stesse che, spesso con un certo orgoglio, ne rivendicano l'esistenza, trasformando un termine negativo in un punto di forza ironico. È un po' come un moderno battesimo del fuoco, una lingua che si plasma sulle esperienze collettive di un mondo digitalizzato, dove l'immersione nella cultura virtuale diventa parte della propria identità. Eppure, nonostante il tono leggero e scherzoso, "brain rot" rimanda a questioni rilevanti: come l’eccessivo consumo di contenuti online, se non bilanciato, possa influire sulla nostra capacità di concentrazione e riflessione critica.
Questa definizione inizialmente era nata addirittura da Davide Thoreau circa nel 1850 assume infatti implicazioni molto più profonde, specie se lette nella chiave delle pratiche aziendali di profilazione e raccolta dati. Non si tratta solo di consumare contenuti inutili; dietro questo fenomeno si nasconde una macchina complessa che alimenta il declino cognitivo per scopi commerciali. E le aziende ne sono responsabili.
La diffusione di contenuti brevi, semplici e ripetitivi non è casuale. Piattaforme come TikTok, Instagram e YouTube non solo osservano il comportamento degli utenti, ma ottimizzano i contenuti per aumentare il tempo di permanenza. Questo avviene attraverso algoritmi che monitorano interazioni come "mi piace", condivisioni e durata della visualizzazione per fornire ciò che più cattura l'attenzione.
Ma perché le imprese sono interessate a questa dinamica? La risposta è semplice: profilazione e pubblicità mirata che può essere rilasciata solo dopo avere acquisito una serie di elementi e averli processati sulla base di quegli stessi algoritmi che sono stati accusati di produrre anche vera e propria dipendenza.
Ogni interazione online lascia tracce, ogni clic diventa un dato, e ogni dato è una risorsa economica. Non si tratta solo delle piattaforme più evidenti come TikTok o Instagram, ma di una vasta rete di imprese che raccolgono, scambiano e utilizzano i nostri dati. Informazioni provenienti da carte fedeltà, app di fitness, acquisti online e persino dispositivi domestici connessi contribuiscono alla costruzione di un profilo dettagliato. Questo profilo, a sua volta, alimenta algoritmi progettati per mantenere l’attenzione, spesso a scapito della qualità dei contenuti proposti.
Più tempo trascorriamo online, più informazioni personali vengono raccolte. Si tratta di dati che spaziano dalle preferenze esplicite (i contenuti su cui clicchiamo) ai dettagli impliciti, come gli orari in cui siamo più attivi, le nostre emozioni basate sulle reazioni ai video e persino i nostri ritmi circadiani.
Ogni contenuto che "scorriamo" contribuisce a perfezionare il modello che ci descrive, permettendo alle piattaforme di prevedere con sorprendente accuratezza ciò che ci terrà incollati allo schermo.
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Le piattaforme digitali hanno trasformato il Brain Rot in una strategia commerciale creando un ciclo infinito di contenuti sempre più semplici e accattivanti, per attirare l'attenzione e bloccare gli utenti in modalità passiva, azzerando il pensiero critico. Questo approccio è vantaggioso per le imprese, che ottengono un pubblico sempre più profilato e quindi più appetibile per gli inserzionisti.
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Ad esempio, il "marciume mentale" indotto da video virali o trend banali può sembrare innocuo, ma il suo vero scopo è abbassare le barriere cognitive e aumentare la probabilità che l'utente clicchi su una pubblicità o effettui un acquisto impulsivo.
Il Brain Rot non è solo un problema individuale, ma una questione di etica collettiva. Se il declino intellettuale diventa parte integrante del modello di business, le generazioni future potrebbero crescere in un ambiente dove il pensiero critico è sistematicamente eroso.
Le normative per regolamentare l’uso dei dati e la responsabilità delle imprese appaiono sempre più urgenti. Alcuni Paesi, come l'Australia, stanno considerando restrizioni sull'uso delle piattaforme per i minori, ma una riflessione più ampia sulla trasparenza degli algoritmi e sulla qualità dei contenuti è necessaria.
Il rischio non è solo quello di perdere capacità intellettive, ma di diventare strumenti nelle mani delle aziende, che sfruttano il nostro "Brain Rot" per raggiungere obiettivi di profitto.
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