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giovedì 4 settembre 2025
Di Avv. Gianni Dell’Aiuto
La triste storia del gruppo Facebook “Mia Moglie”, chiuso solo dopo l’intervento della Polizia Postale, è l’ennesimo segnale che la rete non è un luogo “leggero” dove tutto si può dire e fare. Quando si parla di foto intime, di identità esposte senza consenso, siamo davanti non a goliardate, ma a trattamenti illeciti di dati personali e, molto spesso, a veri e propri reati.
Quali reati si prospettano? La violazione del diritto alla riservatezza è il minimo. Ma c’è di più: diffamazione, trattamento illecito di dati personali, pubblicazione arbitraria di immagini altrui. E, nei casi più gravi, revenge porn, cioè la condivisione non consensuale di immagini sessualmente esplicite, oggi punito severamente dal nostro ordinamento. Se poi dovessero emergere anche minori tra le vittime, si entrerebbe in territori ancora più oscuri e devastanti, con conseguenze penali pesantissime.
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Tengo a precisare che parlo sulla base di quello che si legge in cronaca; ovviamente chi ne può parlare è chi ha accesso agli atti di indagine (e non dovrebbe per riservatezza e segreto istruttorio). Sembra che tra i coinvolti ci sia chi si difende parlando di “gioco”, di “vanteria”. Ma se davvero la motivazione era quella, perché non rivolgersi a piattaforme come OnlyFans, dove l’esposizione del corpo avviene su base volontaria, con consapevolezza, con un contratto e con regole di trattamento dati più chiare (anche se non perfette)?
La differenza è enorme: in un gruppo social la donna fotografata non sa, non sceglie, non acconsente. Viene esposta come merce senza possibilità di difesa.
Anche psicologi e psichiatri sono intervenuti dicendo la loro. Del resto è una di quelle vicende adatte per il gossip salottiero, delle reazioni di istinto o partigiane e dei commenti facili. Ma lasciamo questi aspetti a chi gradisce.
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Ma ciò che a qualcuno sfugge, è che non si tratta solo di un problema di oggi. Il web non dimentica. Una foto scaricata può essere salvata, duplicata, condivisa altrove. Magari oggi sparisce da Facebook, ma domani ricompare su un forum, tra anni in un sito porno, in una raccolta di immagini rubate. Una ferita che non si chiude mai, perché ogni volta che l’immagine riaffiora, riaffiora anche la violenza.
Gli amministratori del gruppo non possono chiamarsi fuori. Non sono spettatori neutrali: hanno creato e mantenuto uno spazio che viveva della diffusione di dati personali e immagini intime senza consenso. La loro responsabilità è diretta. Alla magistratura spetterà il compito di distinguere: capire quali immagini provenissero da contesti realmente privati, quali da profili pubblici, quali magari fossero state sottratte da altri siti. Non si esclude che alcuni contenuti fossero falsi o manipolati. Ma la sostanza non cambia: la pubblicazione senza consenso è sempre illecita, e le conseguenze ricadono non solo su chi ha postato, ma sull’intero ecosistema che ha permesso e favorito la diffusione.
E poi c’è la responsabilità della piattaforma stessa. Facebook (oggi Meta) non può nascondersi dietro il ruolo di mero contenitore neutrale. Quando arrivano migliaia di segnalazioni e un gruppo di oltre trentamila iscritti continua a restare attivo, il problema non è più solo degli utenti che pubblicano, ma anche del gestore che non interviene con tempestività.
L’inerzia, in questi casi, non è neutra: diventa complicità. Sarà la magistratura a stabilire fino a che punto la piattaforma dovrà rispondere, ma la domanda resta: se un gigante globale, con risorse e algoritmi immensi, non riesce (o non vuole) fermare in tempo un gruppo del genere, allora chi difende davvero le vittime?
La memoria del web è infinita. Ma la responsabilità, anche per chi ospita e guadagna da quella memoria, lo è altrettanto.
lunedì 25 agosto 2025
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