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giovedì 11 settembre 2025
Di Avv. Gianni Dell'Aiuto
Le patch, qui, non c’entrano nulla con la dermatologia o altre branche della medicina Quelle servono a capire se siamo allergici al nichel o alle fragole.
Quelle di cui parliamo qui sono forse più noiose, ma anche ben più importanti: riguardano l’informatica e la sicurezza delle aziende. Una parte essenziale, ma volte trascurata, anche del GDPR Una patch è un piccolo pezzo di codice che il produttore rilascia per correggere un errore, chiudere una falla, mettere ordine dove il software mostrava crepe.
È un rattoppo, un rammendo, un cerotto digitale. Eppure su questi cerotti si regge gran parte della sicurezza dei nostri sistemi informativi. Il patch test è la fase in cui questo cerotto viene provato: non lo appiccichi direttamente sulla ferita, prima controlli che non causi infezioni peggiori. In azienda significa simulare, testare, provare in un ambiente controllato prima di applicare l’aggiornamento ai sistemi veri. Perché? Perché un aggiornamento installato alla cieca può bloccare un’applicazione critica o paralizzare una rete intera.
Lo scopo è semplice: verificare che la toppa non strappi il tessuto. Il metodo è altrettanto semplice: creare un ambiente “di prova”: un server che non fa girare la produzione reale e lì installare la patch. Se funziona, bene, si distribuisce. Se no, si rimanda o si corregge. Chi pensa che siano dettagli da tecnici o di poco conto si sbaglia di grosso. Oggi le patch sono diventate materia di legge.
Con normative stringenti come NIS2, DORA e Cyber Resilience Act, la gestione delle patch è obbligatoria quanto il bilancio di fine anno. Non è più un vezzo degli informatici: è parte integrante della conformità. Perché un software non aggiornato non è solo una porta aperta agli hacker: è anche una violazione di legge che può costare milioni di euro di sanzioni. La storia recente insegna. Basta ricordare Log4J: una falla di sicurezza sfruttata da cybercriminali di mezzo mondo poche ore dopo essere diventata pubblica.
Per saperne di più > NIS2, GDPR, CyberSecurity Act, DORA: orientarsi in un dedalo di normative
La patch era uscita, ma troppe aziende hanno fatto spallucce, aspettato, rinviato. Il risultato? Sistemi bucati, dati sottratti, costi di ripristino astronomici. Applicare patch è faticoso, lo sappiamo: richiede risorse, pianificazione, spesso ferma le macchine quando si vorrebbe correre. E allora si rinvia, si posticipa, si chiude un occhio. Peccato che il conto arrivi sempre e sia salato. Perché i pirati informatici non aspettano i nostri comodi: mentre decidiamo se installare o meno, loro hanno già scritto lo script che sfrutta la vulnerabilità.
E qui veniamo al punto: anche la privacy ha bisogno delle sue pezze. Non è un principio astratto da manuale universitario, è un organismo vivo che ogni giorno rischia ferite. Ogni vulnerabilità del software è un taglio che espone dati personali, clienti, dipendenti.
Ogni patch è un cerotto che chiude la ferita prima che diventi cancrena. Chi non aggiorna, in fondo, si comporta come chi esce sotto la pioggia senza impermeabile e poi si stupisce di ammalarsi. Solo che qui non si prende un raffreddore: si perdono dati, reputazione, contratti, fiducia. E la fiducia, a differenza del software, non si aggiorna con un clic.
La morale è semplice e spietata, alla Montanelli: le patch non sono facoltative. Sono il prezzo minimo per stare al mondo digitale senza finire derubati o multati. Si possono ignorare, certo. Ma è come non chiudere a chiave la porta di casa e lasciare un cartello con scritto “tanto non ho nulla da nascondere”.
E allora, imprenditori, manager, amministratori: smettete di pensare che sia roba da tecnici. Le patch sono le vostre pezze di sicurezza, i vostri cerotti di privacy. Applicateli, testateli, controllateli. Perché senza quei cerotti, la vostra azienda rischia di dissanguarsi alla prima ferita.
giovedì 4 settembre 2025
lunedì 25 agosto 2025
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