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giovedì 18 settembre 2025
Di Avv. Gianni Dell'Aiuto
Il 25 maggio 2018 doveva segnare un cambio epocale: responsabilità, consapevolezza, diritti degli interessati. Il GDPR era nato per rimettere ordine nel caos digitale e per dare a cittadini e imprese regole certe.
Ma sette anni dopo lo scenario è cambiato molto meno di quanto pensiamo se non peggiorato per quanto riguarda le sempre più usate dalla App.
Le app dominano ancora la nostra vita. Allora erano viste come una novità che semplificava il quotidiano, oggi sono diventate l’infrastruttura della nostra identità digitale. Paghiamo il parcheggio, ordiniamo la cena, firmiamo contratti, gestiamo la salute: tutto da un’icona sullo schermo. Eppure, le policy sono spesso le stesse di allora: lunghe, incomprensibili, inutili. Informative create non per chiarire, ma per coprire.
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E i dati richiesti e le funzionalità sono aumentati in maniera esponenziale con le problematiche connesse. Dal lato dell’impresa, la tentazione è sempre la stessa: raccogliere più dati possibile, con il minor attrito possibile. Le app sono il veicolo perfetto: gratuite in apparenza, ma in realtà basate sulla monetizzazione dei dati personali. I dati vengono profilati, incrociati, ceduti a terzi. E oggi, con l’intelligenza artificiale, diventano carburante per algoritmi che prevedono, anticipano, manipolano i comportamenti. Un patrimonio che vale più di qualsiasi bene fisico.
Punto di vista dell’interessato, invece, resta la bugia di fondo: l’illusione del consenso. Clicchiamo “accetto” senza sapere davvero cosa autorizziamo. Consegniamo rubrica, posizione, cronologia, abitudini, pensando di ottenere un servizio gratuito. Ma il prezzo non è mai zero: è la nostra privacy. Sette anni fa regalavamo numeri di telefono; oggi regaliamo intere identità digitali. E spesso, oltre ai nostri, cediamo dati di altri — amici, contatti, colleghi — senza averne diritto.
Il paradosso è che entrambe le parti vivono dentro una contraddizione. Le imprese sanno che devono rispettare regole, accountability e diritti dell’interessato, ma inseguono margini e profitti. Gli utenti sanno che ogni clic è un consenso, ma preferiscono non pensarci. Tutti fingono, tutti partecipano al grande scambio. E il risultato è che la App Economy si è allargata fino a diventare una Data Economy globale.
Oggi parliamo addirittura di Swift Economy: miliardi di transazioni triturano dati personali solo per un personaggio del mondo dello spettacolo, ogni secondo, trasformandoli in valore economico prima ancora che in servizi concreti. L’impresa li chiede, li colleziona, li scambia. L’interessato li cede, spesso senza consapevolezza, e solo quando qualcosa va storto si ricorda di avere dei diritti.
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E le app di prima? Molte sono le stesse. Con le stesse informative, con lo stesso schema: servizi rapidi in cambio di dati. La differenza è che nel frattempo la tecnologia è diventata più invasiva, più raffinata, più pervasiva. La raccolta è sempre più capillare, la profilazione sempre più precisa, e l’intelligenza artificiale ha reso tutto più potente e meno controllabile.
La doppia valutazione, oggi, è inevitabile, e, se per l’impresa i dati sono oro, per l’interessato sono pezzi di vita ceduti pezzo per pezzo. E mentre la prima li deve gestire con metodo, con regole precise, con trasparenza, altrimenti diventano una mina sotto i piedi pronta a esplodere in multe, contenziosi, perdita di reputazione, per le persone ogni clic è una rinuncia di libertà in cambio di comodità. E ogni comodità ha un prezzo, anche se non lo vediamo subito.
La App Economy è stata solo l’inizio. Oggi la domanda è più ampia: quante altre economie digitali nasceranno su questo scambio, e quanti altri dati saremo pronti a regalare? Perché la verità è questa: i dati non si raccolgono più. Si triturano.
lunedì 15 settembre 2025
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