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Bastava digitare “Louvre” - Quando la sicurezza informatica crolla per una password ridicola


giovedì 6 novembre 2025
Di Avv. Gianni Dell’Aiuto



Password Louvre e sistemi violati 

La notizia che per accedere al sistema di videosorveglianza del Museo del Louvre bastasse digitare la parola “louvre” come password ha fatto il giro del mondo ed ha del clamoroso. Ma per gli addetti ai lavori non è certo una sorpresa. Viene anche spontaneo chiedersi in quanti (vigilanza, addetti alle pulizie, personale di segreteria) ne avesse la disponibilità. Probabilmente tutti. Chissà che risate si sta facendo il fantasma di Luigi XVI che aveva l’hobby di costruire serrature. Probabilmente erano più sicure delle “chiavi” usate da suoi discendenti.

Non è solo un episodio curioso, ma un pericoloso reminder che riguarda chiunque gestisca dati personali. Anche la struttura più imponente, il sistema più costoso e la rete più protetta diventano inutili se il fattore umano cede sulla soglia elementare della sicurezza.

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Che un ristorante di quartiere scelga come password “paperino,” “margherita” o il nome del locale con l’anno di fondazione, può far sorridere: in quel contesto il rischio è minimo e il danno potenziale limitato.  Ma quando un’istituzione come il Louvre protegge il proprio sistema con una parola così prevedibile, il problema non è tecnico ma culturale. È l’ennesima dimostrazione di quanto la superficialità digitale sia oggi una delle principali vulnerabilità della nostra epoca.

Anche l’hacker più inesperto può trovare online interi elenchi delle password più usateForzarle non richiede competenze eccezionali, ma solo un minimo di pazienza e una connessione internet. Basta questo per capire che la sicurezza informatica non si improvvisa e che la prevenzione parte dalle scelte più semplici.

È pur vero che nel testo del Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali non compare mai la parola “password”. Ma la sua assenza non significa che non esista un obbligo di proteggere gli accessi.

Allo stesso modo, nel GDPR non troviamo termini come “antivirus” o “firewall”, eppure nessuno dubita che la protezione dei dati passi anche da questi strumenti. La norma non si limita a elencare strumenti tecnici, ma impone un principio più ampio: chi tratta dati personali deve garantirne la sicurezza, l’integrità e la riservatezza.

In altre parole, lasciare porte aperte o serrature deboli non è compliance. È una violazione dei principi di responsabilità e di adeguatezza delle misure di sicurezza. L’articolo 32 del GDPR stabilisce che il titolare e il responsabile del trattamento devono adottare misure tecniche e organizzative adeguate al rischio. Questo significa che la complessità della protezione deve essere proporzionata al valore e alla sensibilità dei dati trattati.

Conclusioni

Dietro ogni sistema informatico esiste un titolare del trattamento, e quindi una responsabilità diretta. La protezione dei dati non si esaurisce nell’acquisto di software o nell’affidamento a un fornitore, ma richiede una vigilanza continua e una formazione costante del personale. Le aziende devono garantire che chiunque gestisca dati conosca le regole elementari di sicurezza: password robuste, aggiornamenti regolari, autenticazione a più fattori, protezione degli accessi e consapevolezza del rischio.

Una violazione causata da negligenza o da mancata formazione può determinare non solo sanzioni economiche, ma anche un danno reputazionale e una perdita irreparabile di fiducia. È un problema di cultura, prima ancora che di tecnologia.

La lezione del Louvre è semplice ma potente. La sicurezza dei dati non è un obbligo formale né una materia per tecnici, ma una responsabilità condivisa che comincia da una tastiera. E chi pensa che una password valga poco, dimentica che dietro ogni password c’è un sistema, e dietro ogni sistema ci sono persone, dati e fiducia.

 




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