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giovedì 11 dicembre 2025
di Avv. Gianni Dell'Aiuto

Cosa c’entra questa domanda con la protezione dei dati? All’apparenza nulla. In realtà tutto.
Blockbuster era un colosso che ha caratterizzato un'epoca (breve) prima di crollare. Ma non è crollata perché mancavano i clienti o perché non avesse un catalogo ampio. È crollata perché ha pensato che il suo modello fosse valido per tutte le stagioni e, magari, eterno. Noleggio fisico, store dappertutto, un marchio forte: bastava questo, credevano, per resistere. Nel frattempo, altri facevano una cosa molto semplice: guardavano i dati.
Netflix nasce spedendo DVD per posta, ma intanto raccoglieva informazioni sui gusti degli utenti, li analizzava, li trasformava in valore. Ha capito prima degli altri che il futuro era nello streaming e nella personalizzazione, non nel negozio sotto casa. La differenza non è stata solo tecnologica, ma culturale: un’azienda che vive di certezze contro un’altra che lavora di previsione e programmazione basate sui dati.
E oggi? Il parallelo è evidente. Molte imprese italiane credono che la privacy sia solo un obbligo burocratico, un faldone da compilare o un’informativa da appendere sul sito. Una pecetta, insomma, buona per mettersi a posto la cosceinza. Intanto, la concorrenza – quella seria – i dati non li subisce, li governa. Li misura, li pulisce, li mette in relazione con processi aziendali e con scelte strategiche.
E qui viene il punto: i dati non riguardano solo l’ufficio IT o il DPO. I dati sono linfa che scorre in tutti i reparti. Nella produzione, significano tempi e scarti: sapere quando una macchina si ferma, prevedere la manutenzione, ridurre i fermi. Nella logistica, significano rotte ottimizzate, magazzini con meno rimanenze e più velocità nelle consegne. Nel marketing, i dati sono il cuore: profilazione, target, campagne costruite non su intuizioni, ma su numeri reali. Nel commerciale, i dati dicono chi compra, quando e perché, e permettono di costruire relazioni solide invece di tirare a indovinare. Nel post-vendita, i dati trasformano un cliente insoddisfatto in un cliente fedele, se le informazioni sui reclami diventano processi di miglioramento. Persino nella direzione del personale i dati servono: turnover, assenteismo, benessere aziendale.
Ecco perché chi si occupa di GDPR non può limitarsi a scrivere regole o fare check-list. Deve sedersi con tutti i reparti, parlare con chi lavora in produzione, con chi spedisce, con chi vende, con chi risponde al telefono. Deve capire come i dati nascono, come si muovono, come vengono usati. Perché la protezione dei dati non è un recinto legale, ma una governance che tiene insieme tutta l’azienda. Magari anche individuando i dati nuovi che occorre gestire o qualcuno vecchio da cancellare e ripulire gli archivi.
Per saperne di più> Il dato come elemento di gestione e organizzazione aziendale
La lezione di Blockbuster allora è questa: non basta avere il marchio o il prodotto. Non basta credere che quello che ha funzionato ieri funzionerà sempre. Bisogna imparare a leggere i dati, a integrarli nei processi, a programmare con la testa e non con la nostalgia. La differenza tra chi resta e chi scompare è tutta qui: la capacità di trasformare il GDPR da obbligo in valore, da legge calata dall’alto a strumento di efficienza. È il mestiere della cybermetrica: misurare, prevedere, correggere. Perché un’impresa che ignora i dati oggi non fa una brutta figura: fa la fine di Blockbuster. E la concorrenza, che quei dati li governa, diventa il prossimo Netflix.
Chi guida un’impresa oggi deve fare con i dati esattamente quello che un tempo si faceva con la catena di montaggio: previsione, programmazione, controllo di qualità e capacità di correggere in corsa. Non servono frasi solenni né illusioni da marketing: servono numeri, disciplina e visione. È questa la differenza tra chi si racconta storie e chi porta i risultati a casa.
giovedì 4 dicembre 2025
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