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lunedì 4 novembre 2024
Di Avv. Gianni Dell'Aiuto
Da quando il lavoro si è trasferito in pantofole tra il tavolo della cucina e il divano di casa, gli italiani ha scoperto un mondo di comodità e flessibilità che sembrava un sogno. Ma come tutti i sogni, il risveglio è stato brusco: alle belle promesse dello smart working si accompagnano rischi che nessuno aveva messo in conto. Perché il problema, quando si parla di dati e sicurezza, è sempre uno: l’essere umano.
E l’essere umano, tra una password salvata su un post-it e un mouse condiviso in famiglia, si comporta spesso come un perfetto auto sabotatore. Inconsapevole, certo, ma pur sempre un sabotatore di sé stesso e di ciò che lo circonda.
Grandi aziende, banche, ospedali investono cifre da capogiro in sistemi di sicurezza, firewall, antivirus e VPN, progettano regole, politiche di accesso, monitoraggi severissimi. Ma alla fine, il punto debole rimane il fattore umano, quel piccolo dettaglio per cui, senza bisogno di hacker, i dati preziosi si trovano esposti come abiti su uno stendino all’aperto. E non si tratta solo del classico errore del dipendente che clicca su un link sospetto o di quello che invia documenti riservati alla persona sbagliata. Il problema è molto più ampio e ha radici culturali e di abitudine, difficili da estirpare.
Per saperne di più > Il pericolo principale per la privacy in azienda? Il fattore umano
Immaginiamo lo scenario casalingo dello smart working: il papà o la mamma che lavorano comodamente da casa, usando il PC aziendale. È tutto tranquillo fino a quando il figlio decide di sfruttare quel device per un videogioco, magari collegandosi a server sconosciuti, o peggio ancora, esplorando siti che, in azienda, causerebbero un licenziamento diretto. Nel frattempo, la figlia è indaffarata sui social e su qualche sito di shopping online, quei bazar digitali senza la minima ombra di sicurezza, ignara che un semplice clic potrebbe spalancare le porte a malware e truffatori.
Approfondisci > Al gran bazar dei dati personali
E qui sta il dramma: il dispositivo aziendale, che dovrebbe essere protetto come una cassaforte, viene trasformato in un jolly per tutta la famiglia, esposto a rischi che il migliore dei sistemi può arginare.
Ma non è solo questione di distrazione o incoscienza. C’è anche chi, in posizioni di fiducia, decide di farsi “furbo” e vendere dati aziendali a terzi. Sembra assurdo, ma nelle organizzazioni grandi come piccole, le mele marce ci sono, eccome. C’è sempre chi, allettato da un po’ di denaro extra o da un favore, è disposto a far circolare informazioni riservate.
Approfondisci > Aiuto! Il dipendente mi ha rubato i dati! No! È colpa tua che te li sei fatti rubare
In questi casi, si sente parlare di fiducia. Certo, è essenziale fidarsi, ma fidarsi è una metà della battaglia: l’altra metà è predisporre strumenti chiari e rigorosi iniziando da lettere di incarico chiare, politiche aziendali che non siano solo belle parole su una brochure. Servono, poi, sanzioni concrete, che non siano semplici pacche sulle spalle: chi mette a rischio i dati altrui dovrebbe affrontare conseguenze vere, economiche e professionali. E, magari, risarcire per i danni provocati.
La realtà è che, se in azienda il rischio di attacchi esterni è costantemente monitorato e aggiornato, nelle nostre case il pericolo maggiore spesso entra dalla porta principale. Quella stessa connessione Wi-Fi usata dal figlio per i giochi, o quella password invariata da quando abbiamo installato la rete. La prossima volta che lasciamo il laptop aziendale in soggiorno, tra le mani dei nostri cari, ricordiamoci che la sicurezza dei dati richiede attenzione e rigore, in azienda come nel salotto di casa
Per saperne di più > Salvare le password: come farlo in modo sicuro
Ricordiamo comunque che questa complessa situazione non è l’unico fattore di rischio. Infatti, come se non bastasse, si aggiungono la distrazione e gli attacchi di phishing, che costituiscono un vero e proprio labirinto di insidie per i malcapitati dipendenti.
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Questi ultimi, sempre più impegnati nel bilanciare il lavoro e le esigenze familiari, spesso si ritrovano a gestire email sospette mentre cercano di preparare un pranzo o aiutare i figli con i compiti. La mente, già sopraffatta da mille impegni, fatica a mantenere alta l’attenzione e, in questo frangente, un clic sbagliato può risultare fatale.
E non dimentichiamo gli errori. Ogni giorno, nella frenesia del multitasking, i dipendenti si trovano a dover prendere decisioni rapide, e questo porta inevitabilmente a svuotare l’armamentario delle precauzioni. Dati sensibili vengono inviati per errore a destinatari estranei, file importanti vengono caricati in cloud pubblici e il ciclo delle sviste continua, come se nulla fosse. In questo clima di superficialità, i continui attacchi informatici – dall’hacking alle violazioni di dati – rappresentano un’ombra incombente. Le aziende, pur potendo contare su sistemi all’avanguardia, si ritrovano vulnerabili a causa di una semplice distrazione, evidenziando come la sicurezza non possa mai essere data per scontata.
Siamo quindi di fronte a una spirale negativa, dove la distrazione si unisce alla facilità di cadere in tranelli di phishing e agli errori umani, creando un cocktail letale per la sicurezza aziendale. In questo contesto, la formazione continua diventa fondamentale.
Non si tratta solo di insegnare come riconoscere un’email di phishing o come gestire una password, ma di instillare una cultura della sicurezza che diventi parte integrante della routine quotidiana.
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