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Appellativi e privacy: non è una questione ideologica, ma di diritto


lunedì 13 gennaio 2025
Di Avv. Gianni Dell'Aiuto



 

 Avete fatto caso che in molti moduli on line si chiede di specificare se il richiedente sia Signore, signora (o signorina) o Dottore? Non si può più fare.

Il caso

La Corte di Giustizia dell'Unione Europea, quindi non una Authority nazionale, trattando la vicenda di un’azienda francese di trasporti, ha ritenuto illegittimo l’obbligo di indicare il proprio genere anagrafico durante l'acquisto di un biglietto. La pronuncia, che ha alla base un’istanza da parte della comunità LGBTQ+, è tuttavia espressione di una rigorosa applicazione del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR), in particolare del principio di minimizzazione dei dati.

Alla base di questa decisione, infatti, non vi è altro che il rispetto delle regole fondamentali in materia di protezione dei dati personali. Secondo la normativa europea, le aziende devono raccogliere solo le informazioni strettamente necessarie per erogare un servizio. E così, la Corte ha ritenuto che chiedere se un cliente sia "Signore" o "Signora" non sia affatto indispensabile per la vendita di un biglietto del treno.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata nella causa C-394/23, chiarendo che l’indicazione dell'appellativo di genere nei moduli online rappresenta una violazione anche del principio di minimizzazione dei dati. Questo principio, sancito dal GDPR, impone che i dati raccolti siano adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali vengono trattati.

In parole semplici, l’azienda ferroviaria ha l’obbligo di identificare il cliente per emettere un biglietto valido. Tuttavia, sapere se quel cliente preferisca essere chiamato "Signore" o "Signora" non è affatto necessario per l’esecuzione del contratto di trasporto. Quindi, tale richiesta risulta essere una raccolta sovrabbondante di dati personali, priva di una base giuridica valida.

Indipendentemente dalle ragioni che hanno dato il via al procedimento, in realtà, la Corte UE si è semplicemente limitata a fare ciò che le compete: applicare il diritto.
Il GDPR – Regolamento n. 2016/679 – è chiaro nel prevedere che i dati personali devono essere trattati in modo lecito, corretto e trasparente. E soprattutto, il trattamento deve essere limitato allo stretto necessario. Chiedere l’appellativo è quindi una violazione di queste norme, perché non è essenziale per il servizio offerto.

Per saperne di più > Minimizzazione del dato: un aspetto spesso trascurato nell’applicazione del GDPR

Non sono state emesse sanzioni, non essendo questo il compito della Corte, ma è verosimile che ciò potrà accadere in futuro.
Caso specifico a parte, questa pronuncia dovrebbe servire da monito per tutte le aziende che raccolgono dati personali in modo indiscriminato. Non è solo una questione di conformità normativa, ma anche di rispetto per la privacy dei clienti.

Il principio di minimizzazione dei dati è uno dei pilastri del GDPR e deve essere preso sul serio da ogni impresa che opera nell'Unione Europea. In un mondo sempre più digitalizzato, la protezione dei dati personali non è un optional, ma un obbligo legale e morale.

Conclusioni

La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea non è una presa di posizione ideologica, né un’invasione della sfera privata delle aziende. È semplicemente un richiamo al rispetto di una norma fondamentale: raccogliere solo i dati strettamente necessari. E chiedere a qualcuno se preferisce essere chiamato "Signore" o "Signora" non è, e non sarà mai, strettamente necessario per vendere un biglietto del treno o altri servizi e prodotti.
Ed è anche il modo di raccogliere e conservare un dato in meno e non appesantire i propri archivi.




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