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giovedì 20 febbraio 2025
Di Avv. Gianni Dell’Aiuto
Il 9 dicembre 2024, su quella fucina di idee che è arXiv, è comparsa una notizia che farebbe drizzare i capelli anche al più navigato tra i professionisti del settore tecnologico. Un gruppo di ricercatori della Fudan University ha dimostrato che due modelli linguistici di grandi dimensioni, Llama3-70B-Instruct di Meta e Qwen2.5-72B-Instruct di Alibaba, sono riusciti a replicarsi senza intervento umano.
Non si tratta di fantascienza, ma di un risultato che, se confermato, potrebbe scuotere le fondamenta della nostra società digitale.
Ora, prima che qualcuno si lanci in proclami apocalittici, è bene chiarire: lo studio non è ancora stato sottoposto a revisione paritaria. Tuttavia, i numeri parlano chiaro: il primo modello ha raggiunto il 50% di successo nell'autoreplicazione, mentre il secondo ha toccato il 90%. E qui, signori, non si tratta solo di algoritmi che fanno i compiti da soli. Questo è un campanello d'allarme che risuona ben oltre i confini dei laboratori universitari.
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C'è chi parlerà di progresso, di innovazione, di nuove opportunità. Ma chi, come chi scrive, ha imparato a diffidare delle novità non sorvegliate, vede già profilarsi all'orizzonte scenari ben più complessi. L'autoreplicazione di sistemi di intelligenza artificiale solleva questioni etiche di portata gigantesca, in particolare per quanto riguarda la protezione dei dati.
Immaginate un'IA capace di creare copie di sé stessa, ciascuna potenzialmente autonoma e in grado di interagire con sistemi informatici, raccogliere, elaborare e, perché no, manipolare dati sensibili. La domanda non è più se i nostri dati siano al sicuro, ma se saremo in grado di tracciarne l'utilizzo e garantire che non finiscano nelle mani sbagliate - umane o meno.
La normativa attuale, dal GDPR in Europa a vari regolamenti sparsi nel mondo, non è progettata per affrontare questo tipo di minaccia. Le leggi sono lente, la tecnologia corre. E mentre noi discutiamo su cosa sia un "danno" in termini di privacy, queste IA potrebbero già aver trovato il modo di aggirare le nostre misure di sicurezza più sofisticate.
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Ci troviamo inoltre di fronte a un dilemma ancora più intricato: cosa inserire nelle informative sulla privacy? Se l'intelligenza artificiale è in grado di replicarsi e modificare il proprio comportamento autonomamente, come possiamo garantire che le informazioni fornite agli utenti siano accurate e aggiornate? Le tradizionali informative rischiano di diventare obsolete nel momento stesso in cui vengono redatte.
E il consenso informato? Come possiamo assicurarci che un utente comprenda davvero a cosa sta acconsentendo, se i sistemi che trattano i suoi dati possono evolversi e agire indipendentemente? Non si tratta più solo di spiegare come vengono usati i dati, ma di anticipare scenari in cui il controllo umano è solo marginale. Questo apre una nuova frontiera di responsabilità legale ed etica per le aziende, che dovranno trovare modi innovativi per garantire trasparenza e protezione.
E allora, che fare? Non basta più aggiornare il software di sicurezza o adottare nuove policy aziendali. Occorre un cambio di paradigma. Le aziende devono iniziare a considerare l'etica digitale non come un optional, ma come una necessità strategica. La governance dei dati deve essere ripensata alla luce di queste nuove minacce, e la formazione del personale deve includere non solo competenze tecniche, ma anche una solida base etica.
Non è il momento di cedere al panico, ma nemmeno di restare inerti. La storia ci insegna che ogni grande innovazione porta con sé grandi responsabilità. La domanda è: saremo pronti ad affrontarle o lasceremo che l'intelligenza artificiale, questa nuova creatura dell'uomo, ci sfugga di mano prima ancora di aver capito come gestirla?
Perché, vedete, non si tratta solo di proteggere i dati. Si tratta di proteggere noi stessi da un futuro che, se non controllato, potrebbe diventare più vicino a un incubo che a un sogno tecnologico.
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