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giovedì 16 ottobre 2025
Di Avv. Gianni Dell’Aiuto
Il social media manager è spesso visto come il creativo digitale per eccellenza: colui che dà voce al brand, costruisce community, inventa campagne virali e gestisce l’immagine pubblica dell’azienda.
Ma dietro i post, le grafiche e le strategie di engagement, si nasconde una realtà giuridica ben più complessa. Il social media manager non gestisce solo comunicazione: gestisce dati. E spesso lo fa con strumenti di analisi, intelligenza artificiale e metriche comportamentali che lo rendono, di fatto, un soggetto attivo del trattamento dei dati personali. E, specialmente all’inizio della sua attività, non sa a chi appartengono.
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Ogni azione compiuta sulle piattaforme social genera un flusso continuo di informazioni. Le reazioni ai post, i tempi di visualizzazione, i commenti, le condivisioni e perfino i momenti di inattività sono dati che, se combinati, restituiscono un profilo preciso degli utenti.
L’algoritmo li misura, li archivia e li trasforma in indicatori utili per orientare le decisioni strategiche. Il social media manager li interpreta e li traduce in scelte operative: pubblicare un contenuto a un certo orario, cambiare tono di voce, modificare un’immagine, selezionare un argomento più coinvolgente. Tutto questo avviene sulla base di dati che, nel linguaggio del diritto, sono dati personali.
Chi gestisce i social di un’azienda, dunque, non è solo un consulente di comunicazione ma un partecipante attivo al trattamento dei dati. Quando scarica report, segmenta il pubblico o utilizza strumenti di profilazione per definire le strategie di marketing, svolge un’attività che richiede consapevolezza normativa. In molti casi, soprattutto quando usa strumenti automatizzati, può trovarsi a trattare anche dati sensibili, come opinioni politiche, interessi religiosi o condizioni di salute dedotte da contenuti pubblicati dagli utenti.
È un potere silenzioso, ma reale, che impone prudenza e responsabilità. Troppo spesso i contratti tra aziende e social media manager si limitano a disciplinare solo la parte economica o creativa, ignorando completamente la dimensione dei dati. È un errore grave.
Ogni incarico dovrebbe contenere clausole specifiche che regolino l’accesso alle piattaforme, l’uso delle credenziali, la conservazione dei dati, il rispetto della riservatezza e la possibilità di eseguire controlli o audit. Il contratto deve indicare chiaramente se il social media manager agisce come responsabile del trattamento o come autonomo titolare, stabilendo chi possiede le informazioni raccolte e come devono essere utilizzate.
Un accordo serio deve anche vietare espressamente l’uso dei dati per fini personali o per progetti non autorizzati. Deve prevedere l’obbligo di utilizzare solo strumenti che rispettino gli standard del GDPR, specificare la durata dell’incarico, la gestione degli account dopo la cessazione del rapporto e le misure di sicurezza da adottare.
Tutto questo non è burocrazia, ma protezione reciproca: tutela l’azienda da responsabilità indirette e il professionista da accuse di trattamento illecito o uso improprio delle informazioni.
E, ancora di più, per chi vive di reputazione online e di fiducia, deve offrire una solida Digital Trust. I clienti dei social media manager, cioè le aziende e i professionisti che si affidano a loro, devono imparare a preoccuparsi non solo della qualità dei contenuti, ma anche della tutela dei dati.
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Affidare la gestione di una pagina o di un profilo significa concedere accesso a informazioni che riguardano persone reali. Il rispetto della privacy deve diventare parte integrante della strategia comunicativa, non un obbligo accessorio. La fiducia del pubblico nasce dalla percezione di correttezza e trasparenza, e una campagna che ignora questi principi rischia di compromettere la reputazione del brand più di qualunque errore creativo.
Il social media manager del futuro sarà sempre meno un pubblicitario e sempre più un custode di dati e reputazione. La sua competenza tecnica dovrà accompagnarsi alla conoscenza delle regole di protezione dei dati e dei principi etici della comunicazione. Non potrà più limitarsi a fare ciò che funziona, ma dovrà anche chiedersi se ciò che funziona sia lecito e giusto.
In un mondo in cui la reputazione si misura in tempo reale e la fiducia si può perdere con un clic, la responsabilità non appartiene più solo a chi comunica, ma anche a chi analizza. Ed è proprio nella consapevolezza del limite, nella scelta di non oltrepassarlo, che si riconosce il professionista vero.
lunedì 13 ottobre 2025
giovedì 9 ottobre 2025
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