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BIG DATA: il grande labirinto dei dati - indagine conoscitiva di Garante e AGCOM. Parte 2


martedì 23 giugno 2020
di s-mart.biz



 

La prima parte è disponible qui > https://bit.ly/2NmZDOY

Qualche mese fa il Garante per la Protezione dei Dati e l'AGCOM hanno pubblicato i risultati di una indagine conoscitiva sullo stato reale, una fotografia potremmo dire, dei BIG DATA. La relazione ci pare molto importante per sensibilizzare gli utenti su come sono usati i loro dati e, suddividendola in parti, ne vogliamo rendere i punti salienti. In questa prima parte introduciamo a grandi linee i big data, analizzando in breve la filiera del dato, ovvero Raccolta > Elaborazione > Interpretazione

L'intero report è consultabile qui.

La parola agli addetti del settore: profilazione e anonimizzazione
L'indagine conoscitiva ha visto la partecipazine di alcune aziende operanti nel settore che hanno reso il loro parere. Per gli operatori del settore il valore dei big data risiede, contrariamente a quanto potrebbero pensare molti, non nella mole di dati ma nella loro qualità. Il loro valore è da misurarsi nella loro capacità di fornire informazioni da utilizzare per scopi commerciali, sociali o politici una volta organizzati ed elaborati.

Chi gestisce dati spiega di potervi trarne trend di consumo e di comportamento sui singoli soggetti, ottenendo informazioni utili ad orientare e/o adattare le scelte commerciali, in maniera tale da poter determinare preferenze in maniera preventiva. Il risvolto è anche la possibilità di incidere sulle scelte dei singoli, adattandole alla realtà che si vive in un determinato periodo. Ecco perchè la profilazione è il passaggio numero 1 per valorizzare i dati in possesso.

Per profilazione si intende l'attività di raccolta e di elaborazione dei dati riguardo ad utenti che fruiscono di un servizio, per poi segmentarli in gruppi a seconda di un determinato comportamento rilevato. Ne deriva un primo punto importante: per gli operatori del settore non è necessario conoscere l'identità personale di ogni singolo utente. La maggior parte delle aziende che opera coi big data vuole conoscere usi, costumi, preferenze degli utenti e tracciare i cosiddetti "tipi-ideali", intesi come individui-modello che rappresentino caratteristiche che accomunano migliaia di persone.

L'indagine conferma il punto: chi fa attività di profilazione utilizza tendenzialmente dati anonimi. Quasi tutti gli operatori di mercato dichiarano di implementare nei processi aziendali politiche di standardizzazione delle procedure di anonimizzazione dei dati. Questo non impedisce, è bene chiarire, di reidentificare il soggetto: l'operazione inversa, dall'anonimizzazione alla "nomizzazione" dei dati, è possibile incrociando una serie di database e mettendo in relazione dati siia generici che metadati.

La parola agli addetti del settore: consenso e gestione del dato
Gli operatori hanno indicato una problematica precisa, sottolineando come durante le fasi di organizzazione, elaborazione e analisi dei dati possono presentarsi informazioni che riguardano la libertà di decisione di un singolo o di una collettività. Il problema risiede nel fatto che il GDPR indica di specificare le finalità del trattamento ex ante, prima cioè dell'inizio del trattamento stesso: il consenso informato deve essere raccolto riguardo le finalità specificate in precedenza. Chi opera coi big data vive però il problema che spesso le finalità della raccolta variano in conseguenza delle relazioni emerse dall'analisi ed elaborazione dei dati, ma anche del fatto che i dati ora sono raccolti in maniera massiva tramite app e il loro sistema di permessi.

Per questo si comincia a parlare di dynamic consent, secondo il quale una persona concede un ampio consenso sulla base di una informativa generale circa le possibili finalità del trattamento dei dati: successivamente, una volta individuata la specifica finalità di quella raccolta, l'interessato riceve una informativa più puntuale con nuova richiesta per un consenso più specifico. Una possibilità contestata da alcuni che sollevano il problema del rischio che l'interessato subisca eccessive sollecitazioni o risponda in modo disattento. Altri invece stanno apertamente esplorando altre possibilità.

La parola agli addetti del settore: portabilità e interoperabilità
La portabilità del dato, ovvero il diritto alla trasmissione dei dati, è regolata dall'Art. 20 del GDPR. Le audizioni agli operatori hanno fatto emergere come, in realtà, la portabilità del dato sia inversamente proporzionale alla strutturazione del dato, anche se fondamentale in termini competitivi: semplicemente più è elevata la manipolazione dei dati più si riduce l'incentivo a migrarli. Un esempio pratico: se i dati sono altamente strutturati per migliorarne visualizzazione e organizzazione, si perderebbe molto tempo a riorganizzarli per spostarli si una diversa piattaforma.

L'interoperabilità dei dati tra piattaforme diverse dipende dall'implementazione di soluzioni tecniche individuate rispetto a uno a più standard: standard ancora non definiti, per cui è ancora presto per capire se, tenendo conto delle formulazioni attuali del GDRP, diverrà possibilie sviluppare l'interoperabilità con successo.

La parola agli addetti del settore: piattaforme digitali
Il report dedica anche un breve paragrafo a quelle piattaforme digitali che svolgono il ruolo di facilitatrici nel rapporto cliente - venditore. Il riflesso di questa semplificazione e riduzione della "distanza" tra cliente e venditore è, in prima battuta, quello della neutralità delle informazioni che vengono recepite dai rivenditori e usate per formare i prezzi. Cambia nettamente il modello di business: in quello classico, detto lineare, un'azienda produce un bene o un servizio per il quale un cliente paga. Le nuove piattaforme digitali non funzionano così: non producono beni o servizi, ma consentono ad altri (che producono beni e servizi) di venderli. In sunto non creano valore, abilitano la creazione di valore.

Nel settore dell'informazione i social network hanno invece prodotto un cambaimento epocale: nel 2018 tra le prime dieci imprese del settore dell'editoria c'erano Google e Facebook, che però non sono società editoriali. C'è da aspettarsi quindi, grazie alla presenza di nuove imprese, maggiore pluralismo informativo? No. Gli esperti del settore hanno indicato esplicitamente come l'aumento delle fonti non coincida con il miglioramento della qualità dell'informazione. Al contrario, piattaforme come Facebook, Youtube e altri social hanno (involontariamente) determinato un aumento delle fake news.

Oltre a ciò gli operatori del settore indicano come il potere di mercato raggiunto da alcune grandi piattaforme (Google, Apple, Facebook, Microsoft, Amazon) sia un fenomeno che sta sconvolgendo e ha sconvolto le dinamiche concorrenziali in più mercati, sopratutto e anche grazie alla disponibilità pressochè illimitata di volumi immensi di dati e dei vantaggi che ne conseguono rispetto alla loro acquisizione > analisi > elaborazione. 




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